Cosa significa oggi la religione per gli italiani? Cosa significava negli anni ’60, ancora, negli anni ’90? Cosa è accaduto negli ultimi 25 anni? Gli studi basati sulle statistiche e gli approfondimenti accademici ce li fornisce il professore Enzo Pace, professore ordinario di Sociologia delle Religioni all’Università di Padova dal 2014. Che nella sua sintesi si basa su una vasta bibliografia scientifica. E che approfondisce il tema anche sulle pagine online di notedipastoralegiovanile.it.
Professore, come si è trasformato il rapporto con la religione in Italia? Partiamo dal dopoguerra
Siamo in grado oggi di descrivere, con un buon grado di approssimazione alla realtà, che cosa significhi la religione per gli italiani. Se lo avessimo chiesto sessant’anni fa a un giovane contadino delle campagne venete, con la memoria ancora segnata dalla fatica e dalla miseria dei suoi genitori e dei suoi nonni, non avrebbe avuto dubbio: la religione è il cattolicesimo. Non si trattava di un riferimento astratto. Cattolicesimo, a sua volta, significava vita vissuta in una comunità che si riconosceva facilmente per i ritmi stagionali del lavoro dei campi, così come per i tempi del sacro scanditi dal rito domenicale della messa e dalle tante ricorrenze del calendario delle festività cattoliche. Era anche facile e spontaneo per un giovane muratore della Val d’Astico, come riferisce Ilvo Diamanti, commentando i questionari che le «Associazioni cristiane dei lavoratori italiani» vicentine avevano distribuito ai loro militanti nel 1954, rispondere di essere pronto a aderire al partito della religione. Sottinteso, la religione cattolica.
Che legame era quello tra parrocchia e comunità?
La così detta ‘civilizzazione parrocchiale’ che gran parte ha avuto nella storia moderna italiana, ha costituito un esperimento sociale riuscito, dove le sfere della vita individuale e collettiva si connettevano facilmente: società, politica e religione componevano un comune sentimento del vivere, parti integranti e integrate di un orizzonte di senso condiviso. La religione – il cattolicesimo – nutriva la cultura, in senso antropologico, di intere comunità e, a sua volta, essa ne riceveva nutrimento. Il cattolicesimo custodiva una «Parola» (il messaggio cristiano) che si mostrava capace di parlare alle e con le parole comuni della gente comune.
Quando comincia ad avvenire la trasformazione del cattolicesimo nel nostro Paese?
Tutto questo di cui abbiamo parlato non c’è più. La seconda rivoluzione industriale, che per l’Italia, avviene fra la fine degli anni Cinquanta protraendosi per quasi tutti gli anni Sessanta (gli anni del cosiddetto boom), cambia abiti del cuore e comincia a incidere sugli atteggiamenti e i comportamenti religiosi degli italiani. Come se si fosse interrotto un flusso di comunicazione che, sino a cinquant’anni fa, garantiva all’autorità pastorale della chiesa cattolica l’ultima parola su argomenti cruciali di natura teologica, etica e sociopolitica.
Possiamo indicare qualche evento storico nella vita politica e sociale italiana che ha fatto da spartiacque in questi mutamenti?
Lo sganciamento della religione (cattolica) dalla cultura (in senso antropologico) ha iniziato ben prima degli anni Novanta. Penso che si possa convenire che il referendum sul divorzio del maggio del 1974 debba essere considerato la data cerniera che conclude una fase storica e ne apre una nuova nella vicenda dei rapporti fra gli italiani e la loro religione di nascita. Con questa formula alludo a un processo storico di lunga durata che ha permesso al cattolicesimo di diventare parte integrante e fondamentale del sistema culturale degli italiani: essere cattolici era un modo di vivere assieme (di fare società) e di rappresentarsi collettivamente (il pensare il cattolicesimo come un legame che univa). Quel referendum mostrò varie crepe: che si poteva essere cattolici in modi diversi, che la saldatura fra consenso politico e sentimento di appartenenza alla chiesa cattolica non teneva più in più punti, che l’autorità pastorale non poteva più contare sulla virtù dell’obbedienza. Già allora si capiva che il modo diverso di essere cattolici non significava la fine della religione. Anche nella diversità si continuava ancora per la grande maggioranza degli italiani a pensare alla religione attraverso il cattolicesimo.
Questa connessione si allenta nel corso degli anni successivi, senza mai però produrre passaggi traumatici dal credere al non credere.
Dal 1994 a oggi cosa ci hanno dimostrato le tante ricerche su questi temi?
Ci hanno mostrato non l’eclissi del sacro o della religione, ma l’emergere di modi autonomi di credere, di credere e non credere.
Un tempo questo che condensa la trasformazione dell’Italia cattolica: non più così cattolica come quella fra gli anni dell’immediato secondo dopoguerra e i primi anni Settanta del secolo appena trascorso, sempre più abitata da nuove fedi (alcune del tutto inedite e sconosciute mediamente agli italiani, come, ad esempio, la religione dei sikh), che hanno arricchito il panorama delle minoranze storiche (come quelle già presenti: ebraica, protestante e ortodossa).
Che tendenze si sono manifestate da allora a oggi tra i cattolici?
Dai tanti studi statistici ne emergono tre: la prima descrive il nocciolo duro del cattolicesimo (divenuto però realmente di minoranza); la seconda analizza il profilo dei credenti autonomi, che nel corso degli anni, si è precisato sempre meglio man mano che il suo peso statistico è cresciuto e si è ormai stabilizzato da almeno un decennio; la terza, infine, si addentra in un’area di credenza e non credenza, dove troviamo soprattutto un segmento importante statisticamente: le nuove generazioni.
La pratica in Chiesa che dati presenta? Ci sono dati sull’ateismo?
Negli ultimi venticinque anni gli indicatori dello stato di fedeltà cattolica mostrano un declino sia per quanto riguarda la pratica religiosa, sia per quanto attiene il livello di conoscenza della propria fede, sia per quanto concerne la fiducia integrale nell’autorità del magistero della chiesa. La pratica domenicale è scesa mediamente al 22%, mentre più di sette italiani su dieci dichiarano di pregare, anche fra chi dice di non credere in Dio o di nutrirne forti dubbi o di averne un’idea vaga come potenza superiore.
Il perimetro della non credenza o dell’incertezza nei confronti dell’esistenza di Dio si è ampliato. Se confrontiamo i risultati di due ricerche comparabili, quella del 1994 e l’ultima del 2017, si constata che nel primo caso erano quattro su cento le persone che si dichiaravano non credenti, mentre nella seconda indagine sono quasi dieci (9,8%) su cento. Inoltre, sempre restando a questa seconda inchiesta, tra i dieci atei dichiarati e i credenti che non nutrono alcun dubbio (il 36,4% degli italiani) si sono moltiplicate le forme incerte e intermedie di riconoscere l’esistenza di Dio: dubbiosi, credenti a fasi alterne, indifferenti pratici, agnostici dichiarati e, infine, quanti ritengono che esista una qualche impersonale potenza superiore.
Possiamo parlare, oggi, perfino di tanti modi diversi di credere e non credere?
Assolutamente sì. L’incertezza o l’ambivalenza sembra, invece, caratterizzare lo stato d’animo di una parte di quanti si rappresentano come cattolici, anche fra chi dice di frequentare la messa domenicale, di pregare e di sentirsi parte della chiesa cattolica.
In altri termini, il credere non traccia più un confine netto con il non credere. Aumenta, infatti, la quota di quanti scelgono di credere ma “a modo proprio”.
Si può parlare in generale di una riduzione del peso del cattolicesimo?
Ciò che emerge è proprio una riduzione di peso del cattolicesimo, accompagnata da una più accentuata differenziazione negli atteggiamenti e nei comportamenti religiosi degli italiani. In particolare, ciò appare maggiormente nelle nuove generazioni.
L’osservatorio che abbiamo scelto consente di comprendere alcuni rilevanti cambiamenti sociali. Ne cito solo due fra gli altri. La crescita del divario fra generazioni e l’irrilevanza della differenza di genere nel credere e nel praticare. Per le nuove generazioni essere religiosi non vuol dire dare per scontato che ciò significhi essere cattolici. Tale atteggiamento accomuna giovani donne e giovani uomini. Un cambio notevole, che indica le difficoltà cui va incontro il modo abituale di trasmettere una fede, come quella cattolica.
Laura Cimino