Il presepe catanzarese: tradizione, simbolismo e il mistero del pastore con la spina

Nel XIX secolo, a Catanzaro, il presepe era una tradizione diffusa soprattutto nelle chiese e nelle case delle famiglie nobiliari. Nobili e borghesi si sfidavano a chi riuscisse a creare i presepi più ricchi e raffinati, arricchendoli con dettagli artistici e popolandoli di numerose statuine disposte in ambientazioni variegate e curate.

Alcuni realizzavano presepi di grandi dimensioni, allestiti in stanze dedicate che restavano chiuse durante l’anno e venivano aperte solo per le festività natalizie. Altre famiglie, invece, preferivano esporre soltanto la scena della Natività, racchiusa nella tradizionale campana di vetro.

Nella seconda metà dell’Ottocento, il presepe divenne una tradizione sempre più accessibile anche alle famiglie meno abbienti. Grazie alla facilità di reperire materiali semplici e poco costosi, come muschio, creta, carta, sughero e persino rami d’arancio carichi di frutta per decorare il fondale, anche la gente comune iniziò a creare presepi nelle proprie abitazioni, trasformando questa pratica in un simbolo universale di devozione e creatività.

Fino a circa cinquant’anni fa, l’acquisto dei pastori per il presepe era una tradizione radicata che animava il mercatino natalizio di Piazza Cavour, meglio conosciuta come Piazza Santa Caterina. Dal 13 al 23 dicembre, la piazza si trasformava in un vivace punto di incontro attorno alla sua monumentale fontana, dove si potevano trovare statuine e decorazioni artigianali. Parallelamente, altri abili artigiani esponevano le loro creazioni in altre zone centrali della città, come Piazza Roma, Piazza Prefettura e la caratteristica area de I Coculi, contribuendo a rendere l’atmosfera natalizia unica e vibrante.

Una sorta di San Gregorio Armeno in versione catanzarese prendeva vita nelle piazze cittadine, dove i pastori più richiesti rappresentavano figure intrise di tradizione e simbolismo. Tra queste, spiccavano l’angelo, il mendicante, gli zampognari, la zingara e i venditori di broccoli e ricotte, autentiche icone del presepe popolare.

Particolarmente suggestiva era la figura de ’u ncantatu, uno dei personaggi più rappresentativi dei presepi meridionali: colpito dalla meraviglia dell’apparizione della cometa, veniva raffigurato in piedi o sdraiato a terra, con lo sguardo rivolto al cielo e una mano sul viso, simbolo di stupore e contemplazione.

Al mercatino di Santa Caterina, tra i pastori più ricercati e più costosi, accanto alla Sacra Famiglia, spiccava quello raffigurato nell’atto di togliersi una spina dal piede. Questa figura, particolarmente significativa, veniva tradizionalmente collocata nella parte superiore della scenografia presepiale, sopra la grotta, simboleggiando riflessione e redenzione, e aggiungendo un tocco di unicità all’intero allestimento natalizio.

Il pastore, rappresentato seduto su un masso con la gamba destra accavallata sulla sinistra, era una figura emblematica e molto amata dai catanzaresi. Con la mano destra intento a estrarre una spina ben visibile dalla pianta del piede, talvolta reggeva nella sinistra una borraccia, dettaglio che aggiungeva realismo alla scena.

Gli artigiani più esperti sapevano infondere al volto del pastore un’espressione intensa, un misto di attenzione e dolore, che rendeva la statuina unica nel suo genere.

L’azione simbolica di estrarre la spina poteva essere interpretata come un gesto di purificazione, un liberarsi pubblicamente dal male per prepararsi a una dimensione spirituale superiore e aspirare alla gloria eterna nei cieli. Una rappresentazione che, oltre all’aspetto estetico, racchiudeva un profondo messaggio di redenzione e speranza.

Il pastore che si toglie la spina dal piede suscita in noi un misto di pena e commozione. Con la sua espressione di dolore, ci richiama alla mente la fragilità e la vulnerabilità umane, tanto simili alle nostre. Lo amiamo perché ci somiglia, ma al contempo non possiamo fare a meno di biasimarlo: per una spina nel piede, per quanto dolorosa, rischia di distogliersi da un evento unico nella storia, quello di contemplare il Volto di Dio con i propri occhi.

A questa figura tanto vicina alla nostra condizione umana, l’artista che l’ha concepita ha affidato un compito comunicativo carico di significati e ammonimenti evangelici, forse troppo gravosi per un semplice pastore. Decifrarli appieno richiederebbe l’interpretazione di un teologo.

Emblema della miseria spirituale e della debolezza umana, il pastorello che si cava la spina trascende il ruolo delle altre figure del presepe. Non è solo una statuina che ci incuriosisce, ma un personaggio che interroga le nostre coscienze, invitandoci a riflettere sulla condizione umana e sul significato più profondo del Natale.

IN DIALETTO
Sugnu nu poveru pastureddhu
e non ebbi cchi ma vi portu:
teniti stu cora.
Si nd’avera, vi darrìa
regni e imperi certi e veri;
ma non ebbi cchi ma vi portu.
Eu on sacciu ma vi parru!
O divinu Bambinuzzu,
vi volera ntra stu pettu,
vi volera ma v’abbrazzu.

IN ITALIANO
Sono un povero pastorello
e non ho avuto nulla da portarvi
tenete il mio cuore.
Se ne avessi, vi darei
regni ed imperi certi e veri
ma non ho avuto nulla da portarvi
Io non so parlarvi!
O divino Bambinello,
vi vorrei nel mio petto,
vi vorrei abbracciare

Francesco Vallone

Il pastore della foto è della collezione privata di Silvestro Bressi